Ogni perdita è un’esperienza soggettiva e personale. Un dolore intimo e devastante davanti al quale non si è mai davvero pronti. A questo tipo di perdita l’uomo, animale sociale, è abituato a rispondere con il primitivo bisogno di contatto, fisicità, relazione. E proprio come gli animali, in caso di pericolo o necessità, siamo portati a unirci fisicamente, a ricercare sicurezza nel branco.
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A fare gruppo.
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Il contatto fisico riduce il dolore del corpo e allevia la pressione emotiva. E’ per questo che abbracciamo i bambini quando si fanno male: l’istinto ci porta a usare il contatto fisico per diminuire la sofferenza. Come se l’amore “da toccare”, l’affetto “da abbracciare” fossero dei potenti anestetici. E lo sappiamo bene, per tutte quelle volte che abbiamo cercato anche noi quell’abbraccio in più anche senza essere bambini, anche senza essere caduti.
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Ironia della sorte, in piena emergenza Coronavirus (la quarta pandemia influenzale dal ventesimo secolo ad oggi), il contatto fisico non è più balsamo consolatorio ma diventa tutto d’un tratto la principale pericolosissima componente di contagio. Un’arma. Il contatto diventa un’arma. Noi siamo pericolosi per gli altri e per noi stessi. Il nostro esserci, il nostro toccarci d’improvviso diventa pericoloso. Abbracciarci, starci vicino non sono più fattori di accoglienza e cura. Lì dove l’unione si fa sempre più pericolosa, l’isolamento sociale diventa incredibilmente l’unica salvezza.
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Per salvarci dobbiamo rimanere soli, dobbiamo isolarci.
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Il surrealismo di questi giorni sta proprio qui. Fuori c’è caos e silenzio. Dentro, nelle nostre case, sarà la solitudine a salvarci. Il nostro stare soli. Divisi, lontani. Ognuno a fare i conti con le proprie paure e insicurezze. Noi e il nostro tempo improvvisamente libero che ora ci affanniamo a riempire, bulimici di horror vacui.
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La quarantena ci ha portato lontano dai nostri affetti, barricandoci dietro muri di ansia e confusione. Una nuova dimensione, fatta di città dalle sembianze spettrali e da uno scorrere del tempo tutto nuovo, a cui non ci resta che arrenderci. Rassegnati e speranzosi.
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Bisogna mantenere le distanze.
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Sempre. A qualunque costo. Anche nel momento in cui è il momento di vivere un lutto. Come è successo a me, ad esempio. A questo giro, però, niente abbracci né strette nelle spalle dei propri cari. Ci sono solo io e la mia quarantena che sto facendo da giorni sola in casa. E il contatto fisico, sì, mi è mancato ed è la cosa che più mi ha fatto uscire fuori di testa. Ho pianto, ho pianto molto. E tutto quello che avrei voluto sarebbe stato semplicemente abbracciare e farmi abbracciare.
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Il pensiero però, non può stare a un metro di distanza da nessuno. Gli affetti e gli amici più cari mi hanno stritolato in un mare di amore con il quale ho avuto la forza di riempire queste lunghe lunghissime giornate. E le sto riempiendo ancora. (Ancora) senza suonare né ascoltare dischi. Ma tra qualche giorno andrà meglio e sono sicura arriverà anche quel momento.
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E per una Vita che se ne va, mi piace pensare a un’altra che forse verrà al mondo.
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L’ultima volta che ho messo piede in un luogo pubblico, ero al centro commerciale e nel bagno delle signore ho visto abbandonata a terra la scatola vuota di un test di gravidanza. Chissà se la ragazza prima di me ha pianto o sorriso davanti al responso di quel test. O magari pianto di gioia. Chissà con quale stato d’animo è entrata in quel metro quadro di piastrelle e fatto pipì su quello stick. E chissà se avrebbe mai immaginato cosa sarebbe successo nei giorni a seguire. Magari anche lei, come me, sta vivendo questi giorni in quarantena lontano dalle persone che le vogliono bene.
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Ecco, certe cose ci uniscono inevitabilmente e senza differenze. Il pianto, la paura, la gioia, il lutto. E’ vero, la lontananza salverà il mondo. Ma solo questa volta.
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Sì, torneremo ad abbracciarci più forti di prima.
Però no, ho deciso che non mangerò mai più i tortelli al ragù.….
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[La mia amica Francesca è un’artista. E una grande amica. E un’artista. E una amica. Mi ha regalato questa splendida illustrazione. Non importa quanto possiamo frammentarci, i pezzetti di cuore torneranno sempre al loro posto, prima o poi].
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Comunicazione è prima di tutto condivisione.
Con-dividere.Prendere qualcosa, un tutto, un intero e non limitarsi a fruirne in solitaria bensì spartirlo, dividerlo con l’altro.
Credo nella comunicazione, nella condivisione. Nell’arte e nello scambio. Nell’incontro e nel confronto. Nell’ispirazione e nell’estensione delle idee. Nell’arricchimento continuo. Credo nella scrittura, nella musica e nelle parole.
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